2006 Edizioni d'Arte Ghelfi - Verona

Tratto da: ARTE TRIVENETA - dal barocco alle ultime ricerche del duemila
di Ottorino Stefani

Lo scultore Aldo Pallaro, all’età di tredici anni , osservava con affettuosa partecipazione, emotiva e visiva, il padre contadino che, sovente, lavorava il legno per costruire rastrelli, cestelli, manici di scopa e vanghe “rustiche”, oppure manici di lucenti falci lavorati con bravura artigianale, con qualche “capriccio” decorativo scavato sul legno chiaro ombreggiato da qualche venatura rosata.
Le opere di Pallaro, da quel periodo in poi, si sono identificate, con grande anticipo sull’Arte povera, in un rapporto viscerale con gli strumenti della “cultura della miseria” (come l’ha chiamata Longanesi): una cultura autentica, fatta di fatiche e di duro, diuturno lavoro, per seminare e far crescere il granoturco, il frumento, l’erba “medica”, talvolta distrutti dalla tempesta.
Anche la cultura di Pallaro, sul piano umano e spirituale, è improntata secondo gli ideali fondamentali del cristiano che sente la parola evangelica come sostanza originaria del destino umano. Non a caso verso l’età di diciassette-diciotto anni affronta il tema del volto di Cristo sofferente. Da questo primo approccio realista-espressionista, verso gli inizi degli anni Novanta, Pallaro si accosta a temi piuttosto impegnativi come L’arca di Noè, La coppia, Madre e figlio, risolvendoli nell’ambito di una forte spinta verso il Simbolismo e il Surrealismo, fino ad arrivare ad un impegno ecologico con Ceppi moderni.
Un’opera realizzata con un ceppo “vero” che ingloba, comprime ed uccide bottiglie, lattine di plastica e preservativi.
Un legno lavorato da una straordinaria sensibilità neobarocca o, se vogliamo, postmoderna in quanto lo spirito creativo dello scultore richiama i “fantasmi” delle grandi avanguardie storiche con un sentimento di alto valore morale ed esistenziale.
Un sentimento che, nell’Albero dell’Amore, diventa esaltazione antropomorfica dell’Eros in chiave tipicamente veneta nel raffigurare seducenti nudi femminili emergenti dal fusto dell’albero come eterno richiamo al vitalismo segreto della natura.
Siamo giunti, così, alle soglie del Duemila che segna certamente una delle tappe più significative dell’arte di Aldo Pallaro.
Nell’opera in legno dal significativo titolo, Qui mi sono ritrovato, lo scultore crea un gigantesco tavolo imbandito completato dal “corredo” rustico di due sedie e di oggetti vari posati sul pavimento (un pallone da pallavolo, zoccoli, una bottiglia,fogli) e su di una sedia: un berretto a visiera e un foglio inciso con un disegno infantile del nipote.
Un’opera che è nel contempo una provocazione contro la freddezza ideologica della Pop art e, soprattutto, una risposta poetica a tanta inutile produzione dell’Arte povera triveneta.
Il lavoro completato dalla presenza dell’“artista bambino” seduto sulla grande sedia è un chiaro recupero del mondo dell’infanzia in quanto l’ingrandimento degli oggetti appare come la raffigurazione visiva di un sogno di un artista che è nato nel suo “nido” pascoliano e vede, a distanza di tempo, gli oggetti amati come ricordo di una vita familiare umile e quasi priva di beni materiali, ma ricca di autentici messaggi esistenziali.
Messaggi che Pallaro ribadisce nel 2005 con un’opera tra le più coinvolgenti e ispirate della scultura padovana contemporanea. Si tratta di una grande croce realizzata con due robuste assi di legno. Una croce incurvata nell’asse verticale come se fosse stata investita da un furioso vento, reso del resto “visibile” anche da un drappo (forse un lembo che copriva il corpo del Cristo) attorcigliato nell’incrocio con l’asse orizzontale del simbolo cristiano che ha segnato per sempre la comunità dei fedeli.